Tavole
Marcello Sestito
È pratica antica quella di incidere lastre, graffiare pareti, lasciare il segno di mani esperte capaci di trascrivere messaggi esistenziali, rituali magici, evocazioni mistiche, intercessioni per l'aldilà. Quando le pareti, i muri come supporto vengono a mancare per scarsezza di materia o per condizione geografica, si procede da sempre alla estrapolazione necessaria di frammenti e lastre, di papiri, di pietra (la stele di Rosetta che avrebbe incontrato l'occhio decifratore di Champollion).
Dove scarseggia la pietra si ricorre all’argilla: (le tavolette di Nippur solcate con cunei penetranti) contabilità impressa, conto spesa, valore nominale di resoconti e scambi commerciali, tavole mnemoniche che anticipano di millenni codici computerizzati e macchine fontaniane cifrate.
La pratica persiste, e l’uso di scrivere su argilla e pietra indurita, continua fino ad oggi. Il lavoro di Guido De Zan, teso alla trascrizione mnemonica di segni e segnali dell’inconscio prosegue su questo filo conduttore. Si tratta di un lavoro scritturale dove intervengono una gestualità interiore nella quale simboli evanescenti si fissano nella memoria verso improbabili “alfabeti personali” e dove l’utilizzo di lettere mute, sottolinea una musicalità introversa al limite della timidezza.
Una linearità del gesto sottolinea l’operazione: pagine di un romanzo senza destinatario di un programma senza fine, di un diario da zone d’esilio. Irrigidite dalla cottura, le tavole di De Zan non ammettono correzioni, divengono perentorie, assolute, conservando messaggi coranici e/o paradossi scritturali. Esse tendono alla elementarietà del segno, convinte che in esso sia racchiusa la portata di una verità illimitata.
Grovigli e scarabocchi, aste e parabole, virgole e punti rappresentano il codice dell’autore che se ne serve per questa sequenza di pagine che altro non sono se non il frammento di un'opera che non si compirà mai, di un testo che non ammette sbavature, correzioni, interferenze. Viene in mente l’opera dello scrivano arabo che lascia sui muri della moschea l’impronta del suo passaggio o il paziente trascrivere del monaco medievale.
Il programma impostato dall’autore, teso alla sublimazione artigianale e alla conquista del territorio artistico si muove anch’esso nell’introversione di un laboratorio alchemico, dove la materia primordiale, l’argilla della creazione, si modella e si piega, reagendo alle sferzate lievi che l’autore stesso impone con fermezza e delicatezza. Come se il materiale riacquistasse una religiosità interna, una sacralità della materia.
Osservare l’artista al lavoro riconcilia heideggerianamemente l’essere con le cose: la mano che plasma, indugia, esplora, accarezza, incide senza ferire come un tatuaggio, sorvola con i polpastrelli, prende coscienza dell’asperità, degli avvallamenti, delle imperfezioni, porta alla descrizione di leggi di comportamento che possono essere descritte a patto che non se ne chieda una illecita decifrazione.
1993