Otto proposizioni per Guido De Zan 

Flaminio Gualdoni

I.

“Anche l’arte fatta con la terra cotta può raccontarci l’apparizione di luoghi, la presenza, anche lontana, di fantasmi abbandonati, di volti muti, di spessori non riflettenti, di percorsi meno attesi. Indizi, frammenti, ma certamente desiderio di uscire di nuovo dalla metafora”, ha scritto una volta Nanni Valentini. Diceva, in toto, delle generazioni ultime della ceramica, di quel loro continuo vivere criticamente – tra orgoglio disciplinare e disagio concettuale – il valore dell’espressione e il sospetto dell’arte applicata: ma di un valore essenziale, anche, che solo chi tocchi la terra come terra, e intenda la forma a partire delle sue pieghe più geneticamente intime, può delucidare.

 

Guido De Zan ha avuto, rispetto agli artisti per i quali la ceramica è lingua madre, una fortuna iniziale: di diventare, non nascere, ceramista. Ovvero, di non fondare la propria identità su un apparato e su un bagaglio retorico di tecnica che intoni ogni tratto della riflessione intorno al fare, bensì di aggiungere il possibile straordinario e per certi versi illimite della tecnica, e del pensiero della materia, a un rimuginio intellettuale che si elaborava su uno spettro d’interessi ben più ampio, su diverse basi e su frequenze intellettuali altre.

 

II.

Tratto distintivo, e qualificante, di tale suo approccio sono state la dimensione e la densità del vedere, della frequenza attiva dello sguardo rispetto alla centralità dell’oggetto. L’oggetto plastico nasce da sempre per convocare spazio e luce, si centra rispetto a un intorno che gli è complemento, afferma una sorta di primazia e di gerarchia.

 

In De Zan no. Anzi, è evidente in tutte le serie e le tipologie di opere che negli anni egli è andato esplorando che la cosa plastica pare in lui deliberatamente ritrarsi, farsi periferica e ritrosa allo sguardo, abdicare alla propria volumetria arrogante. È tòno più che forma, punto di risonanza d’uno sguardo che egli chiede attivo, teso, nitido, a misurare la luce che decide l’evento della visione anziché prendere atto della volontà della cosa di essere. La scultura come apparizione anziché come presenza.

 

III.

De Zan perciò non pensa la forma in se stessa, piuttosto la coagula a partire da un nucleo inventivo che è la possibilità di sospendere il tempo in una luce fatta quasi mentale; il tempo allentato ove l’io riguardante entra in rapporto determinante con il motivo (motivo nel senso ottocentesco di motif, ma sottratto a ogni narratività e referenzialità residua) e l’esperienza estetica è non l’apprezzamento dell’altro, ma la durata e la qualità d’esperienza del rapporto stesso.

 

È giunto a questo attraverso plurime suggestioni ed echi culturali. L’Oriente, certo, e le sue mille parabole minime intorno al vuoto. Ma anche la pittura di luce europea degli Chardin, dei Morandi, dei Bissier, e il candore addensato ove s’imprimono i segni indeterminati dei Tobey, dei Twombly... Il recupero del valore d’ironia della lezione metafisica, quell’ “esitazione tra il culto delle cose supreme e il gioco, che può essere cosa grave quanto il culto”, di cui scriveva Campigli. Il dialogo non derivativo con la tradizione di sottigliezza concettuale di un altro Novecento, la linea che porta dalla blankness delle avanguardie storiche alla spaziosità sospesa di certo concettualismo. La riflessione del design più avveduto tra forma data e evocazione della forma, tra possibilità del disegno e assertività del progetto, in fervido critico cortocircuito.

 

IV.

È evidente in De Zan la centralità del processo di dematerialization di lippardiana memoria, che continuamente trascorre dalla confidenza astratta del disegno all’interrogazione critica dell’oggetto. Come se egli, al momento in cui ritiene la forma coagulata al grado minimo di esistenza, deliberatamente si arresti per consentire di assaporare lo iato tra ciò che è fisico e ciò che era, e avrebbe ulteriormente potuto essere, sul piano del puro stream mentale e affettivo.

 

La sua è dematerializzazione dolce, tuttavia, ha semmai una marca melottiana e munariana più che ideologicamente e programmaticamente conceptual: quello è discorso, è oratoria, è fideismo: le sue opere condividono invece la natura dello haiku.

 

V.

Tipico del procedere di De Zan è il concentrarsi sulla valenza superficiale delle sue ceramiche. “Guido è uno dei pochi ceramisti che si preoccupa di dare non solo una forma ai suoi oggetti, ma anche una pelle particolare”, notava proprio Munari. Anzi, ci si può spingere a dire che egli determina la forma attraverso la pelle, non tegumento di un corpo bensì sostanza dell’apparire in luogo del corpo.

 

Il “disegno interno” della forma rimane lì, in vista, architettura tra artificiosa e naturale, dichiarato da quelle superfici che non dismettono la volontà di sentirsi pagina: una pagina tramata da mille segni diversi e tutti possibili, il dipanarsi del segno-gesto primario, radiante e imperfetto, e la cadenza blandamente decorativa, la sintesi essenziale e la suggestione primitiva: sino allo specchiamento micidiale della pagina/forma tracciata in pericolante geometria, talora con tanto d’eco di ombre portate, con la forma altra che avrebbe potuto essere, in contraddizione meravigliata e a un tempo arguta.

 

VI.

È forma stessa, talora, a pensarsi come fosse disegno, facendosi brivido d’incarnazione plastica della rappresentazione proiettiva, inverando perplessa e interrogativa la propria stessa astrazione concettuale, il proprio grumo inventivo e progettuale. Oppure, a tentare una sorta di antieroico e paradossalmente rattratto paesaggismo, con quelle skylines urbane ridotte a palpiti di luce, a teatrini gentili e straniati.

 

VII.

De Zan configura una condizione precisa, e a un tempo sovranamente ambigua, di tattilità del vedere: la blankness si fa confidente e trepida in virtù della dolcezza delle superfici, del loro rapprendere la luce incidente restituendola in luce affettiva. Ma un’altra condizione irrinunciabile egli pone in gioco, nel suo operare. Artista en philosophe, egli è ben consapevole che altrimenti potrebbe esplorare i medesimi oggetti di interesse, verificare il filo dei pensieri di forma.

 

Ma la terra è terra, è matter originaria ed essenziale, e proprio perciò esorcizza in lui ogni hybris d’intellettualismo, ogni fuga in avanti del pensiero infatuato di se stesso. Se ha senso, se un senso è possibile, è in un fare/pensare consapevole della propria identità e lucidamente determinato. Perché, come voleva Savinio, le idee nude, se vanno in giro per il mondo, prendono freddo e muoiono.

 

VIII.

De Zan ha troppo rispetto e troppo amore per la fotografia – oltre che condividere con troppo pochi, ormai, una sorta di tensione spasmodica per la qualità dello sguardo – da essere ben conscio di quanto il regard del fotografo, il suo modo, il suo sapere la luce, sia determinante nella rappresentazione.

 

Nel caso di De Zan, poi, l’ambiguità del rappresentare, del dar forma e leggere forma, è materia problematica del lavoro stesso, e la ripresa fotografica può, anziché congelarla in messinscena, farsene parte attiva, a sua volta critica.

 

Queste fotografie, eseguite dall’artista stesso, sono dunque rappresentazioni di rappresentazioni – meglio, ragionamenti di ragionamenti sul rappresentare e sul dare apparenza alla forma – che amplificano il grado di esperienza sensibile e concettuale del lavoro anziché indirizzarla.

 

Sono opere, non trascrizioni di opere. Dai carnet minuti agli appunti certosini al tocco gentile della chamotte, dal tracciare intenso e concentrato sulle pagine plastiche al metterle in atto nella luce, De Zan prosegue senza soluzioni il suo mormorio poetico.

 

Il resto, è la capacità del nostro sguardo.

 

 

2008


Guido De Zan

 

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