La possibilità di un'isola*
Eugenio Alberti Schatz
La seule atmosphère pour une création artistique
c’est la régularité, la modestie, la continuité, la pérséverance.
Le Corbusier
Nella piccola e slunga baia di Cheronissos incastonata nella punta nord dell’isola di Sifno, nelle Cicladi, sulla spiaggia frequentata dai turisti d’estate e da tamerici tutto l’anno, si affaccia una bottega senza pretese. L’insegna è una scritta dai caratteri esitanti: “Ceramica la difficile”. Il maestro Costantino De Pastas incarna una tradizione ancora molto forte sull’isola. Sifno è menzionata nelle fonti storiche per tre cose. Per le miniere di elettro, una lega naturale di oro e argento, che hanno dato prosperità e spinto i suoi abitanti a erigere il Tesoro dei Sifni al Santuario di Apollo di Delfi (talmente bello da garantire ai suoi finanziatori il diritto di consultare l’oracolo per primi). Per i 235 monasteri e chiese (su 2.000 abitanti). E per i ceramisti, che da oltre duemila anni si tramandano le tecniche di produzione di generazione in generazione. Ci andiamo a parlare.
Come tradisce il cognome, Costantino De Pastas è di origine italiana. Ha superato gli ottanta in allegria e ci accoglie con un sorriso un po’ diagonale che va a cercare l’orizzonte oltre le nostre spalle, d'altronde l’abbiamo pure svegliato. È negligente nell'aspetto: l’intramontabile convinzione dell’operaio che lo sporco della materia sia una circostanza ineluttabile. Nel cortile sul retro la figlia ci mostra il forno tradizionale dove si cuociono grandi piatti, tegami, coperchi e piccoli uccelli fischianti in terracotta – un piccolo nuraghe ad altezza d’uomo. Per infilare i pezzi bisogna stendersi e strisciare carponi. Ci fa vedere come si fa, e poi ci regala un mazzetto di menta.
Costantino ha appreso l’arte dal padre all'età di otto anni. Allora il tornio si azionava a pedale, solo negli anni ’80. Ci racconta di come fino a ieri sette laboratori non solo coprivano tutta la domanda di vasellame dell’isola, ma riuscivano anche ad esportare. Il laboratorio di famiglia spediva pezzi fino a un emporio in Alessandria d’Egitto. Oggi molti ceramisti hanno fatto fortuna ad Atene, o hanno aperto laboratori che sembrano più negozi e gallerie d’arte, calibrati non senza malizia sui gusti dei turisti.
Nel solco di Archimede, Costantino ha inventato dei vasi con sistemi di intercapedini che trattengono o rilasciano l’acqua a seconda di dove soffi. Si sente un grande inventore e ci pare più interessato a glorificare la sua originalità scientifica che l’aspetto artistico. Racconta di come va a scegliere la terra rossa in una cava sull'isola. Sceglie lui il luogo da dove andrà scavata la terra e poi infilata nei sacchi bianchi: sa riconoscere a occhio quella migliore.
Scivolo indietro nel tempo e penso al Primo Ceramista, il capostipite. È una finzione, so bene che alle origini ci sono i molti, non uno, una staffetta di uomini e donne lungo più generazioni. Ma lo stesso mi piace pensarlo qui a Sifno. Amava la sua isola e la accarezzava con gli occhi, come si fa con un giardino. La percepiva come un’entità da tastare, una presenza sensuale. Come il manto di un animale. Come un paesaggio plastico che disegna seni di rocce e fianchi torniti, scavallamenti e poi accelerazioni improvvise verso l’alto. E così, un giorno avrà provato il desiderio di replicare con le sue mani queste forme vivide, usando la stessa materia di cui vi era disponibilità. Avrà preso la terra per riprodurre le forme della terra. Deve essere partito tutto da qui. Le forme del corpo, generose, archetipiche (la Grande Madre), contenitrici di acqua e cibo e promesse di futuro. Il grado uno del progresso: il contenitore. Acqua e cibo vengono riposti per non doverli consumare subito – il primo passo di una programmazione dell’esistenza per non vivere alla mercé della giornata.
Terra fatta di terra che racconta terra. Sì sì, deve essere andata proprio così, protezione e eros. Sopravvivenza (piramide di Maslow) e narrazione, lenimento delle paure e rassicurante piacere al tatto. La ceramica si continua a fare così, e nei suoi fondamenti è ogni giorno un ritorno alle origini del mondo. Poi vennero gli scambi, la competizione, la ricerca dell’eccellenza e l’arte, lo stile geometrico e quello orientale, le figure nere, le figure rosse, le grandi produzioni industriali di anfore e gli immensi crateri per celebrare i miti del potere. Ma partiva tutto dall’occhio che vedeva la terra e dalla mano che cercava di riprodurla. Partiva tutto da un desiderio di emulazione.
Nel laboratorio di De Pastas gli oggetti sono disposti su tavolacci. Nulla di rilevante da segnalare. Poi l’occhio cade su un oggetto alla parete. Il maestro De Pastas ha preso due coperchi sormontati ciascuno da un uccello bianco e li ha incollati, creando una scultura. Ora i due uccelli si guardano negli occhi per sempre. È un divertissement? Ha avuto un’intuizione artistica e le ha dato corso, pur senza prendersi troppo sul serio? I due uccelli ipnotici mi ricordano TV Buddha (1974) di Nam June Paik.
È come se il nostro anfitrione avesse compiuto in parallelo lo stesso balzo di Guido De Zan. Facendo eco al film di Krzysztof Kieślowski, potremmo dire ‘la doppia vita di Guido’. Entrambi sono partiti con umiltà, dedizione e ostinazione costruendo oggetti utili. E poi entrambi, almeno una volta, devono aver provato per serendipità come una piccola scossa, un’illuminazione, e devono essersi chiesti: “E se l’utile fosse inutile e privo di senso?”. Tanto vale lasciarsi andare a una ricerca slegata dall'ansia del servire a qualcosa.
Nutro il sospetto che non ci siano risposte ferme, e che i ceramisti usino l’istinto per orientarsi, alternando fasi dell’utile a fasi del bello, o in alcuni casi arrivando a una sintesi provvisoria, altalenante. La ceramica sconta lo status di sorella minore rispetto all’arte, status che la tiene legata più del dovuto all’artigianato. Quando però si considera la relazione ctonia e quasi mistica con la materia – l’homo faber che impasta e trasforma il paesaggio; e quando si considera che già in età arcaica la ceramica greca cessa di essere arte in funzione di scopi e le superfici dei vasi diventano schermi di proiezione per raccontare le figure del mito; e quando si accetta che funzione ed estetica non necessariamente debbano entrare in rotta di collisione, allora la ceramica smette di essere ancillare e si fa apprezzare come un anello nobile della storia dell’arte, quasi un viaggio nell’inconscio dell’arte, un pellegrinaggio alle origini.
Dicevamo, ostinazione. È la parola giusta per Guido De Zan: alzarsi tutti i giorni per quarant’anni e andare a impastare la terra. La pratica della ceramica è da sempre una bella scuola di metodo e perseveranza. Nel 1965 Le Corbusier scriveva: “Dans la vie il faut faire. C’est-à-dire agir dans la modestie, l’exactitude, la précision”. Le parole dell’architetto hanno attinenza, visto che come il ceramista si trova a dover valutare e conoscere la resistenza dei materiali, la loro portata e durata. Si misura anche lui con il peso delle cose. Ogni giorno il ceramista è come se tornasse su un’isola delle Cicladi sferzata dal vento, con le caprette alpiniste, i pope che camminano danzando, le insenature petrose e i rilievi della terra così irrimediabilmente plastici che viene subito voglia di pensare a una nuova forma da cuocere. Con muta ostinazione. Sapendo che dal corpo a corpo con la natura poco a poco emerge il profilo levigato dell’umano.
E una seconda parola, il profondo, l’andare dentro le cose, il mischiarsi con la terra prima che con gli uomini. Ritorna un’espressione di Luigi Veronelli, che diceva “camminare la terra”. (Ben altra cosa che ‘camminare sulla terra’). Questa appartenenza, quest’affinità con l’organismo intero del pianeta spiegano anche alcuni tratti che mi arrischio a dire comuni ai ceramisti in quanto tipologia umana: la pacatezza, il riserbo, l’essere taciturni e un po’ distaccati. Sono impegnati a fare altro, a giocare con altro. La ceramica è anche una sopravvivenza della cultura antica che si è miracolosamente incuneata nella nostra sensibilità di contemporanei. La gentilezza radicale, il passo di sobrietà, l’asciuttezza dei modi sono di chi non è forte nelle parole dell’agorà, ma è forte nella solitudine dei duelli contro la materia.
Terra, torri, teatri
I ceramisti si ripetono, sbagliano, riprovano, lavorano per famiglie di oggetti che poi declinano in infinite varianti, anche per affinare e prendere sicurezza del risultato. Fatta salva questa premessa, una lettura evolutiva è pur doveroso farla. Per questo, vorrei tentare una periodizzazione dei quattro decenni di ricerca di Guido De Zan che qui si celebrano, a partire dai soggetti e dalle tipologie di forme principali.
La prima fase è quella legata alla conoscenza della materia: l’argilla, il suo impasto, la cottura. Occupa all’incirca il primo decennio di produzione. Dopo due anni iniziali dedicati alla maiolica, nei primi anni ’80 De Zan passa al raku, tecnica su cui si sofferma per circa dieci anni. Lavora classicamente al tornio, producendo vasi, tazze, piatti. Tutte le forme sono tonde, organiche, armoniose, capienti, e dunque archetipi di maternità. Tutte le forme nascono intorno a un asse centrale, che le allinea rispetto al pianeta come se ci fosse una segreta connessione fra asse del tornio e Grande Asse. De Zan prende le misure, trova il passo, per quanto è possibile impara a governare la materia. Va detto che nell’arco dei quarant’anni non abbandonerà mai del tutto la produzione di oggetti d’uso.
La tecnica del raku educa all’imprevedibilità. L’autore non sa cosa può succedere in forno. Per ricevere il sigillo di verità, l’opera deve superare la prova del fuoco. Come dire, ci si gioca il tutto per tutto nell’ultimo miglio. È una lunga scuola di pazienza, di tecnica, e di accettazione zen della volontà della materia, che lontano dai nostri occhi si comporta in modo indipendente. È dunque un venire a miti consigli, un accettare le leggi e i capricci della natura, un imparare ad accogliere il fato.
Nei primi anni ’90, contestualmente al passaggio al grès e alla porcellana, entriamo nella seconda fase. Qui succede che De Zan si allontana dal tornio e decide di lavorare con le lastre. (In alcune foto si vede come per montare pezzi più alti si lavori a quattro mani). Qui si apre un mondo. Viene messa a tacere la monocorde e tirannica armonia del tornio. Le forme dei vasi diventano ellittiche. Vengono alla luce linee crude, asincopate, che tagliano lo spazio senza negoziare. Nell’autoesilio dal tornio, De Zan scopre la libertà di muoversi dentro geometrie non euclidee. I vasi si stortano. Cominciano a guardare il mondo di sghimbescio. Escono dal solco e prima timidamente, poi sempre più audacemente, provano a perdere l’equilibrio. I pezzi, ancorché con una loro funzione d’uso, diventano dei personaggi con una forza drammatica tangibile. Sono lì lì sul punto di cadere. Ci ricordano la resistenza dell’umano, e l’impossibilità a priori di prevedere l’esito della partita a scacchi con la morte. Forse è questo il delicato passaggio in cui l’artista per la prima volta si emancipa dal ceramista, schiarendosi la voce.
E i vasi diventano torri. Ne scrissi nel 1998, incantato da quanto potessero essere espliciti i sentimenti delle torri, che come anemoni sgomitano in modo scomposto verso l’alto, chiedendo scusa per non essersi ancora staccate da terra. La torre è una costruzione umana che parla di nemici e avvistamenti, di prede e predatori, di schiavitù e isole rimaste a lungo isolate. Parla di competizione sociale nelle città storiche italiane. Parla di noi. Gli oggetti di De Zan entrano nella storia degli uomini, che è una storia di città. (Alcuni pezzi sono torri insieme arcaiche e costruttiviste, in esse paiono saldarsi l’eredità cupa e solenne delle civiltà mesopotamiche con gli slanci utopici dell’architettura sovietica subito dopo la Rivoluzione).
Ma queste torri sono anche dei modelli di persone che scavano dentro se stesse, procedendo a tentoni nell’oscurità della psiche. Ognuno può adottare una torre come calco del proprio impacciato lavoro di scioglimento dalle catene dell’io. Dopo gli studi di sociologia, voglio dire, e gli anni dell’impegno, si può dire che per Guido arrivi la psicologia. Una psicologia pratica, evidentemente. Le sue creature di terra sono funamboli sulla corda dell’essere.
La terza fase inizia poco dopo, a cavallo del millennio. De Zan ascolta la solitudine delle torri. Si impressiona. E fa come fanno i romanzieri con i loro personaggi: si lascia guidare, cerca di accontentarli. Comincia a farli giocare fra loro. Una torre che si inclina è come un amante che si sporge cercando la spalla dell’amato, elemosinando tenerezza con la parte inferiore del mento. Vasi e torri dialogano a due. Si accompagnano. Si guardano negli occhi, si cercano, si fanno compagnia, entrano in relazione pur restando due entità distinte. La relazione a due è comunque e sempre già una mossa verso la politica. Nulla di strano dunque che poco dopo si passi dal due al molti, e vedano la luce i primi “teatrini della vita”. Telai di legno che contengono personaggi diversi e presepi in cui le figurine emergono come la Linea di Osvaldo Cavandoli, con i piedi sciolti nel terreno. Nei teatrini si avvertono lontane assonanze con il ciclo Le avventure di Gustavo B. di Alik Cavaliere e con il Fausto Melotti, non tanto quello ceramico (quello a sua volta richiama Marini) ma piuttosto – su ben altra scala – quello de I Sette Savi. Come le figure di De Zan, anche loro austeri e convocati per gravi ragioni.
I teatrini portano in scena le traiettorie degli umani, i loro fragili destini. Sono come acquari in cui ammirare la vita standosene comodamente in poltrona (l’Olimpo?) con tutte le sue implicazioni di goffa comicità, rassegnazione e fallimento. Però gli uomini sono fatti così, e in questo è la loro dignità: anche se sanno che va a finire male, loro comunque tutti i giorni sono in scena.
È interessante notare come ogni personaggio, anche nella complessità e nell’allegra confusione di queste riunioni sediziose, mantenga una direzione di sguardo ben distinta. Ognuno punta lo sguardo in una direzione precisa, e non si lascia distrarre dal gruppo.
Incontri
Ho conosciuto Guido nei primi anni ’90 quando abitavo alle Colonne di San Lorenzo. Quando facevo le scale di casa, vedevo salire accanto a me una delle quattro torri scalari che fanno da sentinelle alla basilica. San Lorenzo è un luogo caro ai milanesi, e ricco di storie. C’è la via Mora, che rimanda alle psicosi collettive contro gli untori descritte dal Manzoni, e allora incredibilmente ci stavano ancora i negozi di barbieri. C’erano ancora anfratti ingombri di macerie dell’ultima guerra, le ultime tracce di come nell’estate del 1944 i bombardieri degli Alleati si sgravassero qui delle bombe che non avevano fatto in tempo a sganciare sulle fabbriche a nord della città, facendo nascere il Parco delle Basiliche. Ero innamorato del luogo, coincideva con una stagione felice della mia vita, ed essendo un curioso non tardai a scoprire la bottega di Guido in via Pio IV. Sono un timido anch’io ma mi feci forza, e quel giorno entrai. Da allora l’amicizia con Guido non si è mai interrotta, portata avanti negli anni con ostinazione ceramica grazie al pretesto di edizioni e opuscoli da fare insieme. Mi piacquero subito le torri, e mi innamorai dello spirito del luogo.
Una vetrina lievemente fané e lievemente fuori dal tempo, che spero non cambierà mai, invita a entrare pochi eletti. (Ho una fotografia di Guido di una vetrina abbandonata in Borgogna che cattura bene la provvisorietà della vita). Una volta dentro, il tempo si volatilizza del tutto, e ti ritrovi in un acquario dove accanto a te fluttuano oggetti incantati da toccare con gli occhi. Per anni, sul vetro accanto alla porta era affisso lo scritto stropicciato di Bruno Munari. Il tavolo. Il forno. I libri. I pochi gioielli suoi e di artisti amici dietro le antine di vetro. Le grafiche. Una sottile polvere bianca che incipria tutto. I sorrisi silenziosi di Guido e delle sue assistenti. Nel soppalco, in totale contrapposizione alla parsimonia dei pezzi esposti, l’antro della balena: un piccolo testaccio di pezzi accatastati senza ordine apparente. Più una dispensa che un archivio. O forse un’arca che accumula oggetti utili alle future generazioni in caso di naufragio universale.
La parabola degli incontri di Guido potrebbe essere definita così: pochi ma intensi. Quando si viaggia lungo la Via della Seta si incontra deserto deserto deserto, poi oasi. Deserto deserto deserto, poi una città meravigliosa dove ristorarsi e parlare con persone che ti aprono il cuore. Li racconta così.
Il mentore. “Ho conosciuto Claudio Nobile quando avevo da poco iniziato ad interessarmi alla ceramica, a metà degli anni ’70. Andavo da lui nel laboratorio di Framura durante le vacanze estive a vederlo lavorare e a dargli una mano quando ne aveva bisogno. Se mai ne ho avuto uno, Claudio è stato il mio maestro. Da lui ho appreso i rudimenti del mestiere. Aveva lavorato per una decina di anni in Norvegia, e mi ha fatto conoscere materiali a me sconosciuti come il grès e la porcellana. Mi ha insegnato a comporre gli smalti partendo dalle materie prime”.
L’incubatore. “L’incontro con Lorenzo Fiaschi, Maurizio Rigillo e Mario Cristiani, i fondatori della Galleria Continua di San Gimignano, è stato molto importante. Con loro, nei primi anni ’90, ho partecipato a molte collettive e fiere, sia in Italia che all’estero. Ho potuto confrontarmi con il mondo e con il mercato dell’arte, con critici e collezionisti. Questi anni mi hanno spinto ad ampliare la mia ricerca verso la scultura e la grafica, dando maggior attenzione all’aspetto artistico del mio lavoro”.
Il fotografo. “Arno Hammacher ha curato la mia prima pubblicazione, occupandosi anche della grafica. Mi ha mostrato come l’obiettivo riesce a raccontare l’arte con registri anche molto diversi da quelli dell’artista che l’ha generata”.
L’architetto. “Marcello Sèstito è un architetto, designer, saggista e artista lui stesso. Nel 1993 un suo testo accompagnava il mio lavoro all’interno di una serie di 135 tavole di porcellana incise con scrittura automatica. Mi ha fatto riflettere e capire alcune cose sulle connessioni fra il mio lavoro con l’architettura e i paesaggi urbani”.
Il fratello maggiore. “Nel 1994 Bruno Munari è venuto nel mio laboratorio accompagnato da un amico comune, il designer Marco Ferreri. Mi ricordo bene della sua curiosità, le domande che faceva sul mio lavoro e sui materiali che utilizzavo. Quella volta mi chiese dei fogli di carta e cominciò a schizzare dei vasi che aveva in mente e che avrebbe voluto realizzare con me. Disse che avrebbe scritto sul mio lavoro. Passò un po’ di tempo, e fui io ad andare in studio da lui. Mi mostrò tutti i suoi prototipi, sia di oggetti realizzati che in fase di studio, fra i quali ricordo dei vasi in bambù che aveva progettato con artigiani giapponesi. Ci scambiammo i doni: io gli avevo portato due tazze raku per lui e sua moglie, lui mi regalò una scultura da viaggio. Dei vasi non se ne fece nulla perché non stava più bene, ma lo scritto arrivò”.
Il critico. “Flaminio Gualdoni è sempre stato vicino alla ceramica d’arte, ed è direttore di Fragile, una rivista di ceramica. Dopo una visita in studio e una in laboratorio, nemmeno troppo lunghe, ha scritto un saggio che mi ha meravigliato. Aveva colto in modo profondo il senso del mio lavoro, e di conseguenza alcuni aspetti della mia personalità, fra cui alcuni a me nascosti”.
Leggerezza e altre storie
Il manifesto poetico di Guido De Zan potrebbe sintetizzarsi con una frase secca. “Non so stare con le mani in mano”. L’understatement è implacabile, i voli pindarici sono altrove. Non stupisce che anche quando racconta gli inizi, De Zan vada intessendo leggerezza. Come se la vita, e la ricerca artistica, non fossero molto più d’un gioco.
“Era il 1975 quando uno zio meccanico mi aiutò a costruire un tornio a pedale e mi lasciò l’uso della sua vecchia officina. Lì, insieme a due amici, organizzai un piccolo laboratorio. Acquistai due vecchi forni in disuso e iniziai a fare i miei primi lavori utilizzando il tornio. In parallelo, il mio lavoro con i ragazzi disabili proseguì fino alla fine degli anni ’70. La ceramica la praticavo nel tempo libero e nei fine settimana vendevo le ceramiche d’uso che producevo (vasi, ciotole, teiere, tazze...) ai mercatini e alle feste popolari organizzate dai partiti e movimenti della sinistra. Il discreto successo delle mie ceramiche iniziò a farmi pensare di poter intraprendere il mestiere di ceramista. Nel 1978 acquistai uno spazio con due vetrine in via Pio IV, una piccola via di fianco alla chiesa di San Lorenzo, nel quartiere Ticinese, zona centrale ma a quel tempo popolare della città. Da allora lavoro lì e molte cose sono successe”. Sembra così facile, così leggero.
La scelta del luogo è già una scelta di campo. Il Laboratorio Il Coccio è nel centro della città ma in una zona riparata, appartata. Troppo ceramista per gli artisti, e troppo artista per i ceramisti, De Zan si è ritagliato una posizione in bilico tutta sua – nel vicolo come nella scena artistica – e sempre lieve, senza fanfare. Con la stessa leggerezza si è messo a scorrazzare in altri campi come la grafica, la fotografia, l’incisione a secco, i disegni, i collage, gli oli e gli acrilici. Con la stessa leggerezza si è dedicato alle sue non prive di ironia ossessioni architettoniche, anch’esse in sospensione fra ripensamento del souvenir e orgoglio meneghino, in primis Torre Velasca e grattacielo Pirelli. Sul Pirelli ha sviluppato delle vere e proprie campagne, prima fotografiche e poi ceramiche. Ritrovo il piglio del Primo Ceramista. “Oggi esco, vado a vedere quella collina, poi torno e la rifaccio”. Occuparsi benevolmente del Pirelli, la stalattite di cemento nata per diventare il simbolo di Milano, è un segno d’amore per la città, e la vocazione al moderno dei suoi abitanti.
La parola leggerezza ricorre sovente negli scritti dell’artista. Vi è un’intenzione chiara: l’alleggerimento è segno di virtù, è un obiettivo da perseguire. È proprio della ceramica svuotare, togliere peso, togliere materia prima di infornare per evitare rischi di crepatura. Vale la pena di andarsi a rileggere una delle lezioni americane di Italo Calvino. “La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”.
Della scrittura sulla ‘pelle’ e degli alfabeti di segni incisi di De Zan hanno scritto Munari e Gualdoni. Del sapore metafisico – un tratto che mi pare affiorare in modo non marginale nella produzione di De Zan – ha detto bene Sèstito. La produzione di una moltitudine di oggetti similari con poche varianti ha il sapore di una biblioteca immaginaria che sarebbe piaciuta a Jorge Luis Borges. Presi tutti insieme, i pezzi si trasformano in malinconici archivi di civiltà sepolte, depositi, fondi di collezioni e inventari di eserciti invisibili che non si sono mai decisi a espugnare la Fortezza Bastiani. Dico metafisica perché come in un castello kafkiano, l’infilata di questi oggetti non potrà mai essere conosciuta del tutto, e governata del tutto. Vi è un momento di indicibilità. Si è in balia di oscure forze, di cui nel migliore dei casi possiamo solo essere gli umili catalogatori di un segmento.
Penso ai pallottolieri di ascendenza mesopotamica, in cui un telaio tiene insieme misteriose unità di conto, e le stele, in cui la torre si compone di cilindretti di diverse colorazioni. Ma penso anche alle sculture a muro con vertebre di animali fantastici, chessò uno squalo della Groenlandia o un narvalo, che al passaggio hanno depositato tracce estroflesse di pinne o grandi denti. I padri nobili della metafisica italiana sono De Chirico, Savinio, Sironi e Carrà. Che cosa li accomuna? Una rarefazione, una misurata desolazione, il canto che diventa periferia dell’anima. Ma soprattutto il rallentare del tempo sino al suo congelamento, un senso di imminenza della storia. Sta per accadere qualcosa. Una sirena che squarcia l’aria, una dichiarazione di guerra alla radio, un grido nella nebbia... O anche molto meno, un battito di ciglia, uno starnuto, un frinire di cicale, atti che da soli basterebbero a far rotolare giù antichi imperi. De Zan è accanto a loro, o così mi pare. Nei suoi lavori si ode la nota soave del lontano, e talvolta del trascendente. Frequentando il lavoro di Guido, ho imparato a riconoscere questa nota, un basso continuo, come il suono di una viola da gamba. Se chiedete a lui, negherà. Ma vi assicuro che questa nota è udibile. La metafisica è un elogio persistente dell’ombra, del dubbio, dell’altrove, della lontananza. Come diceva Walter Benjamin, se per impossessarsi dell’oggetto uccidiamo la sua guaina, allora la lontananza si sgretola, e con lei l’aura dell’arte. L’artista lo sa bene, e si guarda bene dal farlo. Nell’abbecedario di De Zan io sento forte il senso dell’altrove, il non accontentarsi del qui e ora. Il fatto di non conoscere la nostra missione sulla terra non ci solleva dai danni che possiamo procurare agli altri mentre la compiamo. L’artista si interroga. Almeno lui.
Un berretto di lana, un coccio e un mazzetto di basilico
Spiridione di Trimitonte è uno dei santi più venerati dalla Chiesa ortodossa (a Cipro lo festeggiano cinque volte in un anno!) ed è santo anche per i cattolici. La sua vita è un film. Era un pastore di Cipro del IV secolo d.C. che alla morte della moglie si dedicò con un certo successo alla religione, fino a diventare vescovo di una zona remota dell’isola. Rimase umile e memore delle origini anche dopo l’investitura, se è vero che continuò come se nulla fosse a pascolare il suo gregge. Amatissimo dagli isolani e da subito in odore di santità per una serie di miracoli attribuitigli, era di temperamento coriaceo: non si piegò all’imperatore Galerio e per questo affrontò l’esilio. Nelle icone indossa un berretto da pastore che pare una ciotola rovesciata, e talvolta è accompagnato da un coccio o un rametto di basilico. È il santo protettore dei ceramisti e dei vasai. Verrebbe da dire un ‘santo democratico’, ove con questa parola si intende la capacità di entrare in empatia con tutte le classi sociali, anche quelle meno favorite.
Spiridione, il santo dei miracoli, tutti i santi giorni se ne andava per l’isola sapendo che la terra non è generosa di tesori. Devi ricavarteli da solo. Sulla terra dura c’è il logorio del vento, il sospetto, la miseria umana. Mi pare di scorgerlo, sull’isola battuta dal vento, dove ha percorso a piedi distanze estenuanti percependo la terra sotto i piedi come una crosta da poco raffreddata sul mistero del mare. I lineamenti si confondono con quelli di Guido (e di Costantino, e di tutti i ceramisti del mondo, anche quelli che devono ancora nascere) – una certa chiarezza di intenti pur nell’apparente indecisione, gli occhi che sanno guardare molto vicino, o molto lontano. Lo vedo inseguire tenacemente capre e anime, conducendo un’esistenza senza fronzoli ma in sostanziale contiguità con la soglia del divino: il blu del cielo, il nero della terra, il bianco dello spirito, e gli altri colori della vita degli uomini, anche il grigio e l’ocra della sussistenza, dalla quale possono dipendere la vita e la morte. E ora, dopo tanto “camminare la terra”, mi pare che Guido sia pronto a lasciare andare il suo gregge ceramico in giro per il mondo, finalmente libero. Ogni capo con la sua impronta delle origini, la purezza, la nota pacata del lontano, il fremito dei nervi e la fiera solitudine battuta dal vento.
(*) È il titolo di un romanzo del 2005 di Michel Houellebecq ambientato parzialmente nell’isola di Lanzarote che affronta in chiave fantascientifica il tema della memoria.