Come torri profonde nel vento

Eugenio Alberti Schatz

1978-1998: vent'anni di lavoro di Guido De Zan

 

Che cosa separa, nella proiezione incrociata dei nostri luoghi comuni, l’uomo occidentale dall’uomo orientale? Il peccato originale dei Greci, la ùbris. Il disegno blasfemo di sfidare gli Dei e la volontà di incidere sull’equilibrio della natura a propria difesa e vantaggio, introducendo uno spirito di ribellione e di spregiudicata conquista. Forse così nasce il mito dell’eurocentrismo, laico o religioso, a cui più o meno renitenti tutti ci pieghiamo, salvo in alcune occasioni sentire l’amaro in bocca per le contraddizioni profonde mai sanate.

 

Nel dualismo di sempre fra l’uomo tecnico e l’assetto del cosmo, fra artificio e natura, nulla di strano che tutte le volte che l’uomo d’occidente voglia recuperare una visione più attenta e umile della natura – intesa come grande circo in cui l’uomo è soltato uno dei tanti giocolieri, clown o acrobati – guardi a Oriente. Per tutto ciò che di spirituale e autenticamente naturale viene importato nella nostra cultura, il ‘Made in Orient’ è diventato infatti un marchio di fabbrica, quasi un sigillo di qualità: dalla meditazione Zen alla medicina tibetana, dalle arti marziali allo yoga e al Tai chi, dalla cerimonia del tè alla letteratura erotica classica delle corti imperiali.

 

Esattamente vent’anni fa Guido De Zan, dopo gli studi di sociologia a Trento e l’impegno nell’assistenza psichiatrica, intraprende il suo percorso all’insegna di una presa di distanza dall’intellettualismo continentale. E di una personale vena di nostalgia per la natura; per la spiritualità capillare delle sue materie. Strappate il velo alla materia, e troverete sempre un grande specchio lucido che, con esiti mai prevedibili, restituisce all’operatore una geografia del profondo, una mappa dei moti dell’animo.

 

Con coerenza e serietà De Zan guarda ad Oriente, perché le grandi tradizioni della ceramica non-industriale sono lì, in una produzione, come nella calligrafia e nell’arte del disegno, in cui il legame con la natura è il punto di partenza mai messo in discussione.

 

La ceramica in Giappone, diversamente che da noi, è vissuta come un ambito artistico a tutti gli effetti e le gallerie d’arte si disputano i maestri più quotati. Questo determina non solo il prestigio sociale dei ceramisti, ma soprattutto la capacità della ceramica di fare proprie le istanze della ‘modernità’. Così si è creato un singolare contrasto: in Oriente, pur nel rispetto delle tecniche tradizionali, gli artisti cercano strade ed espressioni nuove, sul filo dell’astrattismo. (Strada obbligata, per non rischiare di essere semplici artigiani che riprongono all’infinito gli stessi codici.)

 

Mentre in Europa e negli Stati Uniti si guarda alle fonti più ortodosse, all’antico. Tanto che Shoji Hamada, uno dei grandi maestri giapponesi che dagli anni ’40 in poi, insieme al grande caposcuola inglese Bernard Leach, innescò la grande infatuazione per la ceramica di scuola orientale in Occidente fu piacevolmente stupito quando, nel 1968, fu chiamato a scrivere la prefazione al puntiglioso e ricco trattato di Herbert Sanders sulle tecniche della tradizione ceramica giapponese The World of Japanese Ceramics. Fu colpito da tanta attenzione filologica, quasi un rinascere della tradizione giapponese all’estero.

 

In questi vent’anni De Zan ha esplorato le tecniche più estreme della tradizione spiritual-naturale: il raku, per esempio. Dove grande importanza è data al caso, a quel gioco di combinazioni irripetibili fra materia, elementi e regia dell’autore. Il ceramista diviene un cacciatore dell’attimo fuggente e perfetto. Il raku è ricerca di una poesia dell’istante, che assegna al gesto d’impulso la stessa importanza che ebbe nell’Action painting. Però, questi vent’anni sono per De Zan già un round-trip: la scoperta dell’Oriente all’andata, la scoperta di una ricerca più smarcata dalla tradizione al ritorno.

 

Dopo aver assorbito senza maestri gli insegnamenti orientali, la ricerca di De Zan non si ferma. Arriva l’invenzione delle stele in ceramica, delle composizioni grafiche su base ceramica, dell’incisione con la punta e della creazione di un alfabeto di segni crittografici. Arrivano i vasi-parlanti: strani personaggi che allungano la testa verso l’alto ma di sbieco. E infine il lavoro pittorico, i pastelli e le incisioni. Grande ricchezza di linguaggi. Un’unica, irriducibile inquietudine espressiva, a cui l’alveo tradizionale dell’oggetto modellato e cotto sta troppo stretto.

 

Questa inquietudine, che in una prima fase aveva spinto De Zan verso l’equilibrio – l’armonia di forme, tonalità e materiali – non si placa quando raggiunge il risultato per cui si era mobilitata: l’equilibrio stesso. E riporta De Zan ‘a casa’, in Occidente, nell’espressione più tipica dell’arte come luogo dell’irrequieto. Di quell’ambito in cui anche l’essenzialità e la religiosità di un Fontana sono un’epica della violenza e del dissidio interiori. Una poetica della ferita. D’altronde, come diceva Goethe, l’equilibrio delle forze in natura è innaturale, poiché tutto è movimento, innovazione. Scardinamento e ricerca di un equilibrio ulteriore a un livello più alto.

 

Tutto ciò lo leggiamo soprattutto nei lavori degli ultimi anni, nei sintomi di una graduale erosione dell’equilibrio, e anzi di un crescente disequilibrio. Scrive in un appunto De Zan: “Mi piace pensare che le mie forme possano rappresentare dei personaggi ognuno con caratteristiche psichiche e fisiche proprie. Una caratteristica che purtroppo li accomuna è l’estrema instabilità, o meglio il precario equilibrio fisico: sono sempre lì lì per cadere. Forse avrebbero bisogno di maggiore aderenza al terreno, cioè più superficie a terra, ma così non sarebbero più loro... Mi piace vederli leggeri, aerei, poco legati a terra, che si ergono nello spazio nonostante i loro timori, le loro paure, il loro equilibrio instabile.”

 

Ogni pezzo che esce dal forno si colloca in un trasognato presepe metafisico animato da storie molto umane. I cui personaggi muti ma curiosamente espressivi sondano la perturbazione dello spazio, giocano sulla deformazione della statica, sullo sbilanciamento ottico e fisico dei pesi – con gentilezza, senza enfasi, eppure cercano chiaramente una via d’uscita dalla stagnazione dell’equilibrio: De Zan è definitivamente un artista occidentale.

 

Le sue costruzioni sfidano il vento, e in questo dialogo con il quarto elemento (perché nella ceramica vi è già, come sappiamo l’acqua, il fuoco e la terra) vi è una forte intuizione – l’immaginare le proprie creature, uscite dal forno per arredare case e ambienti urbani, esposte al gioco degli elementi. Battute e stortate dal vento. Sferzate dalle piogge acide. Percosse dallo sferragliare dei tram. Attori non di una natura pastorale, bensì della nostra natura, quella tormentata delle nostre città operose e assurde.

 

Senza cancellare la memoria di un lungo e fecondo viaggio in Oriente.

 

1998


Guido De Zan

 

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